CAPITOLO 7

 

Quando si deve effettuare un trasloco, è inevitabile una gran confusione. Man mano che si aprono valigie, scatole, scatoloni si ritrovano oggetti dei quali si ignorava quasi l'esistenza, a volte persino l'utilizzo.
Il commissario non sfuggì a questa regola. Quando Enrico aveva trasportato i mobili e gli altri bagagli, aveva depositato il tutto in un magazzino del commissariato. Ora i furgoni li avevano portati a Silvi Marina, nella nuova casa del commissario. Leggendo le etichette erano tornati alla luce nomi improbabili, oggetti semisconosciuti, ai quali il commissario avrebbe dovuto trovare un posto in quella casa.
In quei giorni Boschi preferì restare alla pensione, avrebbe dovuto sistemare tutto prima di entrare nella sua casa. E questo richiedeva tempo.
Quella mattina, all'incirca alle dieci e mezzo, il commissario invitò il suo vice al Bar delle Palme, per un caffè di quelli buoni. Non sapeva rinunciare a quella passeggiata di mezza mattina, lo aiutava a pensare.
Stavano gustandosi il caffè, quando una chiara scossa di terremoto smosse il bancone. Così come era cominciata, finì. E non ce ne furono altre.
Usciti i suoi superiori, l'agente Menichelli, di turno al centralino, sentì l'intera postazione oscillare. Si meravigliò, non senza apprensione: mai si era verificato un terremoto a Montesilvano.
I palazzi lungo la via Vestina vibrarono sensibilmente, generando panico nei loro abitanti, che ancora avevano negli occhi quanto avvenuto a L'Aquila pochi anni prima.
Franca Rancilio, banconista in servizio presso il Bar dello Sport di Marina di Città Sant'Angelo, sentì le tazzine tremare rumorosamente.
L'ingegner Lorenzo Massetti, progettista in uno stabilimento metalmeccanico di Congiunti ed appassionato di storia della seconda guerra mondiale, sentì distintamente il boato e si preparò alla successiva scossa, che però non arrivò.
Marcello Antonacci, ristoratore di Elice, vide le vetrate del suo locale andare in frantumi.
All'inizio nessuno pensò a guardare il cielo. D'altra parte, in presenza di un terremoto, osservare il cielo non è cosa usuale.
Eppure l'ingegner Massetti fece proprio così.
E lo vide.
Vide un enorme fungo bianco, terribile, in tutto e per tutto simile a quello formatosi sul cielo di Hiroshima. Quel fungo, che saliva alto verso il cielo, era stato la causa di tutto. L'ingegnere chiamò il suo titolare: purtroppo sapevano cosa c'era alla base di quel fungo di fumo denso.
Il commissario rientrò in ufficio e si mise a studiare le carte del caso chiamato ormai “del morto del palazzo”, alla ricerca di elementi utili all'indagine. D'improvviso il telefono suonò. Era l'agente Menichelli che lo chiamava dal centralino.
“Commissario, ho il questore in linea. Glielo passo?”
“Certo, passamelo.”
Mentre attendeva di parlare con il suo superiore, il commissario sentì distintamente il trambusto dei mezzi della Protezione Civile che stavano uscendo. Forse la scossa di terremoto aveva creato panico o provocato qualche danno?
“Mi dica, signor questore.”
“Boschi, annulli tutti gli impegni, formi una squadra e si rechi immediatamente dove adesso le dirò. Mi ha telefonato il Prefetto, si è verificata una terribile tragedia sul colle di Santa Marta, tra Città Sant'Angelo ed Elice, lungo la provinciale. I suoi agenti sanno dov'è, conoscono bene il territorio.”
“Mi attivo subito, signor questore. Ma cosa è successo?”
“L'azienda dei fratelli Di Silvestro, che produceva fuochi artificiali, è saltata in aria per cause ancora da accertare. Si rechi sul posto e non perda tempo, mi tenga informato sugli sviluppi della situazione.”
L'agente Grossi, addetto alle volanti del commissariato, era già in strada e pronto a partire. Sull'auto presero posto anche Palumbo, l'ispettore Vicari e l'agente scelto Martella.
Grossi, nato e cresciuto a Penne, conosceva benissimo la strada. In un lampo superarono il casello dell'autostrada A14, passarono accanto alla fabbrica di liquori e presero la provinciale. Man mano che la destinazione si avvicinava, erano sempre più frequenti le tracce di quanto accaduto: rami bruciati, interi pezzi di cemento armato scaraventati per strada a chilometri di distanza, terra e ghiaia sull'asfalto, un acre odore di bruciato che prendeva alla gola.
Giunsero sul posto. Come in unico, terribile coro, Palumbo, Vicari, Martella e Grossi esclamarono:
“Madonna santa!”
Il colle di Santa Marta non esisteva più. L'esplosione lo aveva cancellato quasi del tutto, creando una spaventosa voragine dalla quale uscivano qua e là pennacchi di fumo grigiastro. Sulla sommità del colle, la casa della famiglia Di Silvestro, trentacinque anni passati a creare spettacoli colorati nei cieli della regione, presentava un largo squarcio su un fianco. La parete della scala e del primo piano non esisteva più. Tutto intorno, ambulanze e mezzi dei vigili del fuoco. Si diceva che ci fossero diversi feriti, ma le notizie erano ancora molto frammentarie. Il commissario si mise a parlare con Colasanti, il caposquadra dei vigili del fuoco.
“Commissario, c'è poco da dire. Non c'è rimasto nulla, lo vede anche lei. Sembra, ripeto sembra, che tutto sia partito dalla casamatta n. 26, quella più in profondità, proprio al centro del colle. E' esplosa per prima, innescando le altre esplosioni. Le casematte erano tutte colme di polvere pirica.”
Mentre parlavano, Colasanti vide un ragazzo correre sul fianco del colle, per recarsi giù, come se stesse cercando qualcosa o qualcuno. D'istinto gli gridò:
“Fermati, da là è pericoloso! Passa su questo lato!”
Ma il ragazzo non sentì. Boschi ed il caposquadra ci misero poco a capire che si trattava del figlio di uno dei due fratelli titolari dell'azienda. Come si può impedire ad un figlio di andare a cercare il proprio padre, in una tragedia simile?
Ad un tratto accadde l'imprevedibile. Una tremenda onda d'urto, accompagnata da un boato assordante, colpì in pieno Colasanti, il commissario ed i suoi uomini. Tutti furono scaraventati a terra, sembrava che un tornado si stesse abbattendo sui loro corpi. Il commissario rotolò lungo il fianco del colle, in quella voragine che l'esplosione aveva creato, mentre la terra bruciata gli riempiva gli occhi e la bocca. Ebbe la sensazione di non sentire più nulla, tanto il boato era stato assordante. Quando la rovinosa caduta finì, Boschi capì di essere vivo e miracolosamente illeso. A fatica si alzò, risalì l'altro lato del colle e tornò nel punto dove l'esplosione lo aveva investito. I suoi uomini, compatibilmente con la situazione, se l'erano cavata: Palumbo presentava un forte dolore ad una caviglia, Vicari aveva un taglio in fronte, Martella e Grossi erano visibilmente provati, ma non avevano riportato ferite. Mai erano stati investiti da un'onda d'urto di tale potenza.
Il caposquadra Colasanti era illeso, come il commissario. Capì che vi era stata una seconda e violenta esplosione, sul lato dove era sceso il ragazzo, opposto a quello nel quale si trovavano. Il camion dei vigili, dilaniato dall'esplosione, aveva fatto loro da scudo.
I feriti furono medicati presso le numerose ambulanze presenti, quindi il commissario e Colasanti organizzarono le operazioni di soccorso.
I vigili del fuoco avrebbero ispezionato ciò che restava ancora della fabbrica, Boschi e la sua squadra si sarebbero dedicati ad interrogare i testimoni. Si mise d'accordo con il comandante della Compagnia dei Carabinieri di Montesilvano, il tenente Di Pasquale. L'Arma si sarebbe occupata di dirigere la movimentazione dei mezzi di soccorso.
Attesero tutti una buona mezz'ora prima di muoversi, ma non si verificarono altre esplosioni.
Il commissario si mise a camminare lungo la cresta del colle, immerso nei suoi pensieri. Voleva capire.
Ad un tratto gli cadde l'occhio su un minuscolo pezzo di plastica nera, del tipo di quella normalmente usata per i sacchi della spazzatura. Non lo toccò, si abbassò per guardarlo meglio e vide, ravvicinati, due gruppi di lettere: it – ar.
Chiamò immediatamente uno dei suoi agenti.
“Martella!”
“Comandi, commissario.”
“Prendi questo pezzo di plastica e consegnalo alla Scientifica. Vediamo cosa possono dirci.”
Magari non avrebbe portato a nulla, ma era meglio tentare.
Tornò dal caposquadra Colasanti.
“Avete trovato qualcosa?”
“Non è semplice, commissario. La seconda esplosione ha ulteriormente distrutto la parte laterale del colle, quella dove è sceso il ragazzo che abbiamo visto. Stiamo scavando a mano, non possiamo usare mezzi meccanici, ho ragione di ritenere che là sotto ci siano parecchie persone.”
Il commissario si sentì chiamare. Il tenente Di Pasquale, in prossimità dei mezzi di soccorso, gli chiedeva di raggiungerlo. Accanto all'ambulanza, sullo spiazzo inghiaiato, si trovava una corpulenta donna di mezza età, corti capelli neri, negli occhi ancora il terrore per quanto aveva visto. Accanto a lei, adagiata su una carrozzina, vi era una donna minuta, molto anziana, dallo sguardo assente. I vigili del fuoco le avevano adagiato una coperta sulle spalle, benchè la temperatura fosse mite e gradevole.
Il tenente disse a Boschi:
“Commissario, questa donna è la badante della signora. La signora è la mamma dei due titolari della fabbrica, al momento delle esplosioni si trovava in casa. Il medico che l'ha visitata ha detto che sta bene, compatibilmente con l'età.”
Il commissario domandò a Di Pasquale:
“Quanti anni ha la signora?”
“Più di novanta, commissario. Non ci sta più con la testa, è assistita giorno e notte dalla badante.”
Il commissario si rivolse alla donna.
“Se la sente di raccontarmi cosa è accaduto?”
La badante, tremando leggermente, rispose:
“Io dire, ma io poco italiano, io ucraina.”
“Non si preoccupi, la capisco perfettamente.”
“Io questa mattina prepara medicine per signora, quando aveva scatoletta in mani io sente come di terremoto, io paura, tanta paura.”
“Eravate da sole in casa?”
“In casa nessuno, solo io e signora.”
“Non ha sentito o visto qualcosa, immediatamente prima dell'esplosione?”
“Io no visto, io niente. Io prepara medicine per signora, io no visto altre cose.”
“Va bene, grazie.”
Dunque le due donne erano sole in casa, negli attimi precedenti l'esplosione non si era verificato alcun evento particolare, niente che potesse generare qualche indizio. D'altra parte il colle di Santa Marta si trovava in una zona isolata, attraversato dall'unica strada che permetteva di raggiungere l'azienda e l'abitazione dei Di Silvestro. Da quel dialogo non aveva ricavato alcun indizio sul quale poter costruire anche la più piccola ipotesi. Solo un pezzo di plastica nera, con due coppie di lettere: it – ar.
Il commissario non aveva altro da fare in mezzo a quelle macerie fumanti. Lasciò l'andirivieni di ambulanze, si rimise in auto e tornò al commissariato con la squadra.
Aveva appena messo piede nel suo ufficio, quando il telefono squillò. Era Carelli.
“Commissario, ho in linea il questore di Torino per lei.”
“Passamelo, grazie.”
“Boschi? Sono Magnani.”
“Buongiorno signor questore.”
“Non credo che sia un buon giorno, per te. Mi ha telefonato Mazzotta, molto preoccupato. Sembra che ci sia stata una tragedia fuori città, un'esplosione che ha interessato un territorio notevole, diversi chilometri. Mi puoi spiegare che cosa è successo?”
“E' presto detto, signor questore. Una fabbrica di fuochi artificiali, piuttosto conosciuta nella zona, è saltata in aria. I vigili del fuoco scavano senza sosta, temono che possano esserci delle vittime.”
“Boschi, tienimi informato. Per qualunque cosa, sai che io sono qui. Mazzotta conta molto sulle tue capacità, so che non lo deluderai.”
“Non dubiti, signor questore.”
“Ti saluto.”
“Arrivederci.”
Il commissario si sentì pronto ad accettare la sfida. Probabilmente si sarebbe trattato di un percorso lungo, una paziente partita a scacchi, fatta di mosse e contromosse, di eventi da mettere in fila per giungere al traguardo. Aveva infatti il sentore che quell'esplosione non fosse un fatto puramente accidentale: una fabbrica di fuochi artificiali, si disse, non salta in aria così per caso.
D'istinto prese il telefono. Doveva fare una chiamata riservata, senza passare per il centralino, senza il carattere dell'ufficialità. Chiamò Alberto Capitani, compagno di scuola ai tempi del liceo ed ora ingegnere chimico. Lavorava presso uno stabilimento per la produzione di solventi.
Al terzo squillo, Boschi udì la voce della giovane centralinista:
“AlpiSolv, buongiorno. In cosa posso esserle utile?”
“Buongiorno, sono il commissario Boschi. Vorrei parlare con l'ingegner Capitani.”
“Attenda in linea, prego.”
Qualche istante di attesa in compagnia dei classici di Vivaldi, poi la voce baritonale di Capitani salutò il commissario:
“Mario, vecchio mio! Tempo fa sono passato dalle parti della questura, volevo salire per un saluto, poi mi hanno detto che eri stato trasferito. Mi ero ripromesso di chiamarti al cellulare, ma gli impegni di lavoro mi hanno impedito di farlo. Come te la passi?”

“Tutto bene, Alberto. Dirigo il commissariato di Montesilvano, una cittadina abruzzese. Si sta bene, l'ufficio è a due passi dal mare e l'aria è buona.”
“Mi fa piacere, mi fa piacere. Ma dimmi, posso esserti utile in qualcosa?”
“Forse sì. Sto indagando su una tragedia avvenuta stamattina, una fabbrica di fuochi artificiali è saltata in aria, sventrando completamente una collina e facendo sentire i suoi effetti a chilometri di distanza. Secondo i vigili del fuoco l'esplosione si è originata nella casamatta più profonda, proprio all'interno della collina. Ora ti domando: è possibile che ci sia stato un autoinnesco?”
“Guarda, tecnicamente non lo si può escludere a priori. Una fabbrica di fuochi artificiali è un grande contenitore di polvere pirica, in genere maneggiata da persone esperte ed estremamente attente alle norme di sicurezza. Tra i componenti della polvere si possono trovare nitrati, i cui vapori in certi casi potrebbero potenzialmente combinarsi in maniera spontanea con l'ossigeno dell'aria, dando origine alla fase di combustione e quindi all'esplosione. Tuttavia, stando a quello che tu mi dici, la casamatta era posta dentro alla collina. In un simile punto, considerato che il materiale viene stoccato senza più essere lavorato, ritengo che una possibilità di autoinnesco sia da escludere.”
“Grazie Alberto, sei stato preciso e puntuale.”
Si salutarono. Il commissario rifletteva sulle parole dell'amico e si faceva sempre più persuaso che dietro quella tremenda esplosione ci fosse qualcosa di misterioso, impalpabile, inafferrabile.
Ma Boschi amava le sfide. E non si sarebbe tirato indietro.

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